L'ALTRA NONNA
                                                                                                                     Liliana Laganá*

La chiamavano "la Consolata". Abitava in una casa a due piani, sulla via principale del paese. Al pianterreno, un locale ampio con botti di vino, tavoli, seggiole e un deposito, sul fondo. Una scala di legno, molto ripida, conduceva al primo piano,dove erano la cucina e due stanze. Dalle finestre di quelle stanze si poteva vedere, ogni mattino, il sole sorgere dai monti della Sila.

Era nata e cresciuta in quel paese. Unica figlia sopravvissuta, aveva avuto tre fratelli adottivi, che la madre si prendeva per non perdere il latte lasciato dai figli morti. L'avevano sposata a diciassette anni, con un appuntato dei carabinieri. Bell'uomo, buon partito. Credettero di sistemarla: sarebbe vissuta - si dissero - tranquillamente. E invece all'appuntato non piaceva molto fare il carabiniere. Era un uomo d'avventure e la sua prima grande avventura la visse verso il 1907, partendo per l'America, lasciando la moglie con tre figli piccoli.

Tornò, dopo due o tre anni. Con i soldi guadagnati in America - erano dollari e valevano molto - mise su un negozio, in quella casa sulla via principale del paese, dove si vendeva di tutto: vini, olio, castagne, pane. La famiglia viveva abbastanza bene: si lavorava molto, ma si guadagnava per andare avanti degnamente. Poi c'era anche la fabbrica di mattoni e tegole - la carcara - che apparteneva alla mamma della Consolata e dove i figli, appena cresciuti um po', andavano a dare una mano.E intanto la famiglia cresceva: nel 1920, la Consolata aveva già otto figli, di cui due gemelli.

Nel 1921, un'altra grande avventura dell' ex-appuntato dei carabinieri lo portò via e portò via anche il figlio più grande della Consolata, che aveva allora diciassette anni e che, come il padre, si chiamava Consolato. Partirono per il Brasile e non ritornarono più. C’era stata la guerra e c’era stata la spagnola e molti non avevano potuto pagare i conti al negozio e gli affari erano andati male. E poi molta altra gente partiva, in quell'immediato dopoguerra. Era forte il richiamo d’America: si parlava di una terra d’argento chiamata Argentina , e di un’altra chiamata Brasile, dal suolo rosso e fertile...

La Consolata, quando il marito partì, era gravida dell'ultima figlia. Ancora giovane e bella donna, rimase con nove figli, la bottega di vino- rimanente del negozio - e il nome Consolata, che ereditava dal marito e parve che da allora, in paese, tutti dimenticarono che il suo vero nome era Teresa.

Era un simbolo, quel nome Consolata. E lo è tuttora, in paese: il simbolo di una donna forte, coraggiosa, apprezzata e temuta più di un uomo. Fece andare avanti la famiglia per anni, lei alla bottega, i figli alla carcara. Alla bottega, gli uomini andavano a giocare a carte, seduti nei cinque o sei tavoli disposti nel locale, accanto alle botti di vino, sotto gli occhi vigili e severi della Consolata e chi perdeva pagava. Durante anni, mai brighe in bottega, mai mormorii in paese. Una disciplina rigida, verso se stessa, verso i figli, verso la clientela, verso tutto il paese.

Dicono che gironzolasse con un frustino, sotto il suo enorme grembiule e che picchiasse i figli, anche grandi, se non filavano dritto.

E i figli, appena si sentivano crescere le ali, spiccavano il volo. Dopo il maggiore, fu la volta di mio padre che, stanco di far mattoni, si arruolò come carabiniere e partì per Roma: non volendo più servire la madre, andò a servire la patria, pensando che sarebbe stato più libero, spaziando i suoi occhi al di là di quei monti coperti di boschi. Una delle figlie si sposò e andò ad abitare a Reggio Calabria. Un'altra si sposò com uno che partiva per l’Australia. Lui partì e lei aspettó la chiamata. Riuscì ad imbarcare nell’ultima nave partitada Messina prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e per molto tempo non si ebbe notizia di lei, non si sapeva se era arrivata o no. Dal ponte della nave aveva salutato com un cenno forte della mano, e sembrava felice.

Partire per l’Australia o per l’America era indifferente per quella gente abituata alle ristrettezze e alle durezze di una vita niente affatto facile. Sembrava che vivessero in attesa di partire, e quando qualcuno partivasi rinnovava l’ansia di chi restava, si rinnovava un senso di abbandono, come sorda nostalgia di terra promessa, dalla quale si sentivano esclusi.

Poi venne l’altra guerra, che strappò alla Consolata i tre figli maschi che erano ancora con lei e che si videro d'improvviso, tra le mani, cannoni al posto di mattoni. Partirono, dal paese, i due gemelli e il figlio minore. Con l'altro figlio, partito da Roma, quattro fecero la guerra. Ne ritornarono tre.

Il podestà e il maresciallo andarono personalmente a dare alla Consolata la notizia della scomparsa di Domenico, uno dei gemelli, e gli urli della Consolata riempirono il paese e tutto il paese urlò con lei.

Finita la guerra, due figli della Consolata tornarono dalla madre, ma per poco tempo. Erano più le case che si chiudevano, in paese, che quelle che si costruivano e mattoni e tegole servivano a poco. E poi era ricominciato il richiamo d’America, il canto di sirena di quella terra lontana, che si faceva udire in ogni lettera che arrivava.

Partirono anche loro, i due figli della Consolata, uno dopol'altro:il gemello sopravvissuto, Pasquale, raggiunse il padre, che si era finalmente stabilito a Montevideo; il minore, Carmelo, si riunì al fratello maggiore, stabilito a San Paolo del Brasile. Infine, la figlia più piccola, Marietta, decise di sposarsi anche lei con uno che partiva per l'Australia e andò a riunirsi alla sorella.

La Consolata rimase in paese con una unica figlia, Francesca, sposata, ma anche lei sola, perchè suo marito, come il marito di sua madre, come tanti altri mariti, era partito per l'America e non era tornato più. Ormai chiusa la bottega, la Consolata viveva della pensione che lo Stato le dava per il figlio morto e per qualche soldo che i figli, da dove erano, le mandavano ogni tanto. La conobbi in quell'epoca: lei aveva sessantasei anni; io tredici.

Nel luglio del 1952, mio padre decise di fare un viaggio in Calabria, per visitare sua madre e andai con lui. Partimmo da Roma verso mezzanotte e rimasi sveglia fin dopo Napoli, fino a che le ultime tremolanti luci di Salerno svanirono davanti ai miei occhi assonnati :- "Devi vederla come è bella Salermo di notte!" - mi aveva detto mio padre.

Mi svegliai in terra di Calabria, mentre il treno costeggiava il mare così da vicino che quasi lo si poteva toccare con la mano. Era verde, il mare, così verde nello splendido mattino, che sembrava un' immenso, prezioso smeraldo, svanendo nell'azzurrità, laggiù e così trasparente, presso la riva, che si potevano distinguere i ciottoli bianco-giallognoli, nel fondo. Un uomo, vestito di nero, camminava lungo la riva, portandosi dietro un asinello, nero anch'esso:procedevano lentamente, come se non dovessero andare in nessun posto e parvero non accorgersi del treno. E subito scomparvero dalla mia vista.

A Paola scendemmo. Di lì, continuammo in un vagoncino che su una cremagliera incominciò a inerpicarsi tra montagne scoscese, fra balze e precipizi, inghiottito ogni tanto da trafori scuri, che lo rigettavano di botto alla luce su ponti quasi sospesi nell'aria, sotto i quali immense fiumare coperte di ciottoli facevano indovinare l'ira dei torrenti gonfi per le piogge. Tutt'intorno, boschi e boschi. Di castagni, di querce.

Guardavo incerta tra l'incanto e lo sgomento. Quella natura così aspra, così selvaggia, era nuova per me. In quelle montagne acerbe, la natura sembrava racchiudere in sé, comme nella mano di Dio, i suoi ultimi, reconditi e arcani segreti e all'uomo, perplesso, sembrava concesso solo un rapido passaggio, fra trafori scuri e precipizi paurosi.

A Cosenza prendemmo la littorina, che ci portò fino al paese di mio padre, dove scendemmo verso l'una del pomeriggio, sotto un sole cocente. Credo che fummo gli unici a scendere. Nessuno ci aspettava: forse non sapevano neanche che saremmo arrivati.

Percorremmo a piedi il tragitto di quasi un chilometro che separa la stazione dal paese e arrivammo alla casa dinonna, sulla via principale, stanchi e sudati.

La porta era aperta ed entrammo. Era buia la casa, in contrasto con la luce da dove venivamo e ci volle un po' di tempo per individuare la scala di legno che conduceva al piano di sopra. Una voce, dall'alto della scala, ci fece capire che nonna era lí: forse qualcuno, vedendoci arrivare, l'aveva avvisata. La scala era così ripida, che quando arrivammo sú eravamo quasi in ginocchio davanti a lei, che ci aspettava in piedi, immobile.

Mio padre l'abbacciò, lei gli disse qualcosa, poi disse qualcos'altro rivolgendosi a me, ma io non la capii. Poi ci condusse verso la nostra camera, dove c’erano un gran letto e un'enorme cassa di legno. Era buia la stanza, come buia la cucina per dove eravamo passati, con la caligine attaccata alle pareti e alle travi, da dove pendevanopezzi di lardo affumicato.

Buia anche nonna, con quel suo vestito nero dalle enormi sottane sovrapposte che le giungevano fino alle caviglie e quel suo viso serio, dagli angoli accentuati, aspro come le montagne che avevamo attraversato. Sembrava che da quella bocca non fosse mai uscito un sorriso, nè una lacrima da quegli occhi. Solo i capelli, bianchissimi, fissati in un grosso nodo sulla nuca, la circondavano di un'aureola di chiarore. Di lei non sapevo nulla: sapevo solo che era la madre di mio padre. Mentre parlava, spalancò la finestra e la luce inondò la stanza. Per un attimo, la sua figura scura, in quel riquadro luminoso, mi fece ricordare l'uomo con l'asinello visto nel chiarore del mattino.

Vennero altre persone: la zia, le cugine, i cugini. Parlavano, ma io non capivo. Andammo a bere l'acqua della fontana - la "Fontana Vecchia" di cui tanto parlava mio padre - ed era, quell'acqua, realmente squisita, sgorgante fredda da quelle rocce coperte di boschi. Andammo a fare il giro del paese, che si apprestava per la festa della Madonna del Carmine. Ovunque un movimento, una certa lietezza nell'aria, suoni e parole il cui senso non afferravo. Mi sentivo confusa, smarrita, estranea.
Il giorno dopo, col primo sole, una passeggiata a piedi su per le montagne, tra i boschi pieni di silenzio. Tra l'erba tenera, mille piccoli fiori e fragole selvatiche. Poi felci e felci, ed ancora boschi e boschi. Piccoli ruscelli, che attraversavamo con un balzo, scrosciavano pian piano, interrompendo l'immobilità e il silenzio in cui erano immersi quegli spazi i. Ai margini di uno di quei ruscelli un pastore, quasi un bambino, sedeva immobile. Mio padre mi disse: - "Guarda!" - e gli fece una domanda, che ripetè due, tre volte, senza ottenere risposta. Infine, ad una ulteriore domanda di mio padre, il pastore mosse la testa lentamente verso l'alto,fermandola di botto, allo stesso tempo che faceva schioccare la lingua sul palato.

- Ha detto di no - disse mio padre.

- Cosa gli hai chiesto?

- Se l'acqua era buona da bere.

Alcuni anni dopo imparai, a scuola, che esistono pastori transumanti, nel Mediterraneo, che in estate si recano in alta montagna, dove l'erba è fresca e vivono mesi e mesi in solitudine e in silenzio: noi avevamo interrotto quella solitudine e quel silenzio.

La festa del Carmine fu bella: messa, processione, bancarelle che vendevano di tutto, giochi al bersaglio, inni, canti, danze. Mio padre mi comprò un pupazzo di tarallo, che mi portai a Roma. Però sopravvenne la noia: quel sentimento di smarrimento, di estraneità, aumentava e mi faceva soffrire. Il mio unico interlocutore era mio padre, che però era spesso occupato a parlare con sua madre e io mi sentivo esclusa da quel dialogo.

Nonna veniva, la mattina presto, nella camera dove dormivamo, spalancava la finestra e il sole invadeva la stanza, quasi con arroganza, da padrone. Anche nonna, con i modi di chi si sentiva padrona, si piazzava accanto al letto, in piedi, e con la mano appoggiata alla spalliera incominciava a parlare, a parlare senza posa, quasi avesse cose riposte nel fondo del petto da secoli e che doveva dire. Mio padre l'ascoltava assorto, a volte pensieroso. Le rispondeva ogni tanto, in tono suadente. Io guardavo ora l’una, ora l’altro, senza capire una sola parola.

La guardavo parlare e pensavo a nonna Gemma, com cui avevo vissuto la mia prima infanzia e dalla quale avevo ascoltato tante favole, in parole che io capivo e che mi avevano cullato in un mondo popolato di fate. Cosa diceva mia nonna Consolata, così rigida in piedi accanto al letto? Di cosa parlava? Di quale dolore? Mi muovevo impaziente nel letto, e l'enorme materasso di foglie di granturco produceva un rumore secco, che copriva le loro voci. Un moto di stizza ondeggiava sul viso di nonna, che rivolgeva i suoi occhi scuri e severi verso di me e taceva, aspettando che il rumore si acquietasse. Allora giacevo immobile, e mi veniva una gran voglia di piangere, di tornare a casa.

Dopo tre giorni non resistetti più e incominciai a piangere. Mio padre cercò di persuadermi, di farmi vedere tante altre cose belle, ma alla fine dovette cedere alle mie lacrime e così il nostro soggiorno in Calabria, che avrebbe dovuto essere di quindici giorni, non durò che tre o quattro.

Ritornammo a Roma. Nonna ci salutò sulla soglia della sua casa. Ci voltammo due o tre volte per accennarle con la mano, mentre ci allontanavamo verso la stazione, accompagnati da un piccolo gruppo, e sembrava che la sua figura nera, immobile davanti a quella casa, non dovesse staccarsene mai, quasi fossero tutt'uno. Credetti che non l'avrei rivista mai più e non me ne spiacque.

E invece la rividi tre anni dopo, alla stazione di Napoli: emigravamo e ci incontrammo a Napoli, per imbarcare verso il Brasile, noi che venivamo da Roma, lei che veniva dalla Calabria. L'ultimo figlio della Consolata, mio padre, partiva anche lui per l'America e lei partiva assieme.

Avrà avuto paura di restare sola nella sua vecchia casa silenziosa? Sarà stato il desiderio di rivedere il suo figlio maggiore, partito ragazzo e nonno ormai anche lui?Sarà stata vinta anche lei dal sogno di vivere l’America, di far sua la terra che si era presa, uno dopo l’altro, i suoi figli?Partiva, la Consolata, e forse più che mai il paese patì di terribile abbandono.

Alla stazione la vidi occupata attorno alle valigie, col suoabito nero che le arrivava alle caviglie e i capelli arruffati per il viaggio. Mi guardò a lungo, quando la salutai. Non sorrise, ma disse qualcosa.

- Há detto che sei cresciuta molto, in questi tre anni –disse mio padre.

Poi nonna si rivolse a mio padre e questa volta riuscii a capire quello che disse:

-E se piange, in America?

Ci ritrovammo a vivere assieme, in casa di mio zio Consolato, a San Paolo del Brasile.

- Vedi come è bello, adesso, mamma! - le diceva il suo figlio maggiore, che non erapiù tornato in paese, ma era riuscitoa raccogliere attorno a sé due fratelli, la madre e, poco più tardi, una nipote, anch'essa cresciuta tra i boschi della Calabria.

- Ma gli altri sono lontani... - si lamentava la Consolata.

- Ma tu, mamma, non sei mai contenta... - le rispondevano allora i figli, che dopo aver cercato per un po' di convincerla che ormai essa aveva tutto per essere felice, si mettevano a giocare a carte, oppure a bocce, fingendo, chissà? di essere in paese.

Ma la Consolata non era felice. Cercò forse di nasconderlo, per non rattristare i figli: si sentiva smarrita, spaesata. Ad eccezione dei figli e della nipote calabrese, Maria Teresa, non era capita e non capiva: aveva sempre bisogno di un interprete. Si chiuse in sé, non parlò del suo dolore. Si diede a lavorare ai ferri e all'uncinetto e così manteneva occupate le sue mani e la mente chissà dove.

Quando c'era sole usciva un po' sulla via per goderselo, sostando immobile, gli occhi chiusi, forse guardando la sua casa lontana.

Faceva una impressione strana, quella sua figura nera, così ferma in quella via. Sembrava un personaggio trasportato da una fiaba a un'altra, che si raggirasse attorno preso dallo sgomento, cercando il suo posto . Mancava, alla sua figura nera, la luminosità di quella luce lontana che le facesse da contrappunto, il riquadro di quella casa antica a due piani, la cornice di quei monti coperti di boschi.

La malattia la colse all'improvviso, con furia: una emorragia cerebrale la lanciò in un abisso misterioso, nel quale si dimenava senza posa e dal quale ci giungevano il suo pianto sconsolato, i suoi urli feroci,il suo riso infernale, i suoi lamenti e le sue invocazioni. Stette così, fuori senno, per alcuni giorni. Vidi il viso di mio padre adombrarsi di una tristezza infinita:

- Questa volta - disse - mia madre non resiste.

E invece resistette. Si calmò e poco a poco incominciò a ritornare: incominciò a riconoscere i volti attorno a lei, a balbuziarne i nomi, a parlare. Tornò la memoria. Tornarono i ricordi. Non ritornarono, però, né la sua gamba, né il suo braccio destro evisse così per oltre venti anni. E per oltre venti anni non si alimentò che di ricordi. Andavo spesso a visitarla, con mio padre, che continuava ad essere il suo più attento interlocutore. Le si sedeva accanto e stava per ore ad ascoltarla. Ormai capivo ciò di cui parlavano: quei suoni, per me incomprensibili anni prima, ora avevano un senso. Avevano preso forma, acquistato un significato: assieme al portoghese, avevo imparato il calabrese.

La Consolata parlava: era, il suo, un lungo, un ripetuto lamento e mio padre ascoltava assorto, a volte pensieroso, la rievocazione dei suoi dolori, forse indovinando, chi lo sa?, che in breve sarebbe stato anche lui tra i ricordi di sua madre.

Poi, quando lui non ci fu più, presi a visitaria da sola, quando potevo.

-Siediti - mi diceva, facendomi posto sul letto, con la mano sinistra, rimasta buona.

- Vedi qua - mi diceva poi, immancabilmente, con dolente tono di rammarico, mostrandomi la mano che giaceva immobile sul suo grembo. Poi mi mostrava una macchia di umidità alla parete e diceva:

-Non c’è mai sole qui. Ce n’era tanto a casa mia. Te nericordi? Ci sei venuta una volta, quando eri bambina. Mapiangevi, piangevi tanto!

Mi soffermavo a lungo a osservare quel visodalle fattezze aspre. Cercavo, in quel volto, il volto di mio padre e ve lo incontravo.

Anche lei, fissandomi a lungo in silenzio, cercava sul mio il viso di suo figlio, e spesso diceva:

- Come somigli a tuo padre!

E indovinando i miei pensieri, incominciava a raccontarmi di lui: me lo ripartoriva, lo faceva nascere di nuovo, davanti ai miei occhi e di nuovo lo allattava, mostrandomi il suo bel seno bianco. Ed ecco, in poco tempo, lui che ruzzava vivace tra noi due, tra la madre e la figlia.

- Quando aveva quattro anni si ruppe una gamba... - , raccontava nonna e nel raccontare assaporava tutte le dolcezze e tutti i dolori di quei ricordi. Premuta dalla necessità, aveva vissuto tutta la vita senza poterci pensaremolto, senza potersi mai abbandonare, né alle dolcezze delle poche gioie, né all'amarezza dei molti dolori: ora ne aveva il tempo e gustava della sua vida passata tutti i sapori.

Le piaceva raccontare. Aveva una memoria fantastica e parlava di se stessa, dei suoi figli, del paese. Aveva registrato, fissato per sempre, nomi, date, fatti e la sua storia era intessuta di morti e di partenze.

- Nel 1921, è partito tuo nonno con Consolato... Sono partiti anche ...- e chiudeva gli occhi in uno sforzo di memoria, per ritornare con la mente a quel passato che era tutta la sua vita. Mia nonna Gemma, nella mia fanciullezza, mi raccontava favole e mi parlava di futuro e di speranze. Nonna Teresa, ora, mi raccontava storie vere, e mi parlava di passato e di dolore.

Spesse volte, con la mano sinistra, apriva il cassetto del comodino accanto al letto, ne tirava fuori un grosso libro di preghiere, che si era portato con sé dalpaese e che racchiudeva, tra le sue pagine, le cose più preziose per lei: la fotografiadi Domenico, quella di mio padre, alcune fotografie dei figli e nipoti lontani, l'ultima lettera arrivata dall'Australia, l'altra venuta da Montevideo.

-Me le leggi? - mi chiedeva.

Gliele leggevo. Ascoltava attenta le parole che ormai sapeva a memoria, perchè le faceva leggere varie volte a varie persone, per certificarsi che non le nascondessero nulla.

- Pasquale sta male - mi diceva - sono tre volte che scrive la moglie. Forse è già morto pure lui e non me lo dicono...- . E stringeva al petto le fotografie di Domenico e di mio padre e piangeva. La Consolata piangeva un lungo, sconsolato pianto. Poi incominciò ad andar via, a vivere la maggior parte del tempo immersa nel suo passato.

- Apri quell'armadio - mi disse un giorno - prendimi una bottiglia di vino.

- Ma non c'è vino, nonna! -

- Ma si, ce l'ho messo ieri sera. L'ho nascosto. Ho nascosto pure il grano, sul soffitto, per quando tornano dalla guerra ...

Passato e presente, ormai, si confondevano nella sua mente. Nonviveva più di ricordi. Viveva il suo passato: la Consolata era ritornata al suo paese e, da padrona, aveva riaperto le finestre di quella sua casa antica a due piani, lasciando entrare il sole, contrapponendo a quella luce la sua figura nera.

Un giorno,abbassando la voce in tono di complicità, mi disse:

- Me lo porti un pochino di whisky?

- Whisky, nonna? - risposi con un soprassalto, - ma vi piace?

- Non so, - disse semplicemente - ma tutti dicono che è buono. Anche tuo nonno diceva che era buono. Voglio sapere com' è .
Non poteva bere alcolici, a causa delle medicine che prendeva: non glielo portai e me ne pentii. Morì pochi giorni dopo. La Consolata, che della vita aveva conosciuto tanti sapori, morì senza conoscereil sapore del whisky.

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A AUTORA

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